19/12/2024

Un progetto europeo per aumentare la tolleranza del mais alla siccità

Valentina Dalla Villa
Communication & Event Specialist

Laureato in biologia con una specializzazione in biologia molecolare e un’altra in medicina, biochimica e chimica clinica, Vincenzo Rossi è primo ricercatore del CREA - Cerealicoltura e Colture Industriali. Le piante sono il fulcro della sua attività di ricerca, e in particolare lo sono i loro meccanismi di regolazione molecolare. In pratica, ci spiega, lui è “quello che va a guardare come funzionano le molecole”. In questa conversazione ci ha parlato di un interessante progetto europeo, Booster, il cui consorzio comprende player pubblici e privati di altissimo livello da Unione Europea, Svizzera, Etiopia, Sudafrica e Stati Uniti. Ecco cosa ha raccontato.

Lei è il coordinatore del progetto europeo Booster: qual è il suo obiettivo?

Vogliamo utilizzare alcuni cereali per mettere a punto delle strategie che possano migliorare la resilienza, e in particolare la tolleranza alla siccità, del mais e del teff. Questo è importante perché, tra gli effetti negativi del cambiamento climatico, ci aspettiamo un aumento considerevole della siccità, che a sua volta implicherà un calo delle rese della produzione.  

Ci dica di più delle colture sulle quali vi state concentrando.  

Si tratta del mais, del teff e dell'Eragrostis nindensis, che a differenza delle prime due è una pianta spontanea, non coltivata. Il mais è stato scelto perché è il cereale più coltivato al mondo ma è vulnerabile alla siccità, tant’è vero che proprio la siccità è la ragione principale dei cali di resa del mais a livello globale. La seconda specie è il teff, un cereale coltivato quasi esclusivamente nel Corno d'Africa, dove è un alimento di base. A dire il vero sta prendendo piede anche al di fuori dall'Etiopia perché è considerato un superfood essendo molto ricco di fibre e gluten free. Ha una maggiore tolleranza alla siccità rispetto al mais, però richiede comunque una certa irrigazione. Infine, la terza specie è l’Eragrostis nindensis, anche nota come love grass, che è molto simile al teff dal punto di vista genetico. Cresce spontaneamente nel sud del continente africano, ad esempio in Sudafrica e Namibia, ed è una cosiddetta resurrection plant, ovvero una di quelle piante a cui bastano poche gocce d’acqua per “resuscitare”, anche quando sembrano morte. In altre parole, l’Eragrostis nindensis è una pianta ad altissima tolleranza alla siccità e addirittura alla desiccation, il che significa che riesce a sopravvivere o a "resuscitare" anche dopo aver perso il 95% di acqua.  

Perché avete scelto proprio queste tre piante?  

Perché confrontandole possiamo capire cosa rende il teff e l’Eragrostis nindensis più tolleranti alla siccità, ma non solo. Ci chiediamo se, trasferendo dei caratteri genetici di queste piante al mais, sia possibile rendere quest’ultimo più resistente alla siccità. Queste piante, che sono dei cosiddetti cereali orfani, sono più resistenti a una serie di stress ma ciò sarebbe inevitabilmente connesso a livelli di produttività molto bassi. Per cui, trasferire al mais alcune delle loro caratteristiche potrebbe diminuirne la produttività. Con questo progetto noi vogliamo testare l’ipotesi di Robert VanBuren, professore della Michigan State University, che tra l’altro è coinvolto nel progetto. Secondo i suoi studi, la bassa produttività dei cereali orfani sarebbe anche dovuta ad aspetti storici e culturali, che non hanno favorito il lavoro del miglioramento della produttività. Se così fosse, il trasferimento al mais di alcune loro caratteristiche non rischierebbe per forza di ridurre in modo significativo la produttività.  

Quindi cosa volete fare, nel concreto?  

Vogliamo trasferire delle combinazioni genetiche e verificare se riusciamo a ottenere una maggiore tolleranza alla siccità senza abbassare eccessivamente la resa del mais. Perché una pianta più resistente, ma con una produttività molto bassa, non sarebbe utile. Per quanto riguarda l’approccio genetico, inoltre, non vogliamo concentrarci solo sui geni coinvolti nelle risposte alla siccità, ma piuttosto identificare la funzione – ancora molto poco esplorata – delle sequenze regolatrici non codificanti che determinano la resa delle piante in condizioni di siccità. Vogliamo applicare un metodo che vada a indagare soprattutto queste regioni, che rappresentano la maggior parte della variabilità genetica associata alla variazione del fenotipo. Sono regioni che regolano l’espressione dei geni, non i geni stessi. Le informazioni ottenute saranno utilizzate, una volta che il progetto sarà finito, per migliorare l’utilizzo della variazione genetica naturale nella progettazione di programmi di selezione mirati ed efficienti volti a genotipi tolleranti alla siccità.

Un'altra parola chiave di questo progetto è biostimolanti derivati da organismi viventi. Ci può dire qualcosa a riguardo?  

Il progetto prevede lo sviluppo di due nuovi tipi di biostimolanti: il primo è un seaweed extract prodotto grazie ad alghe che crescono nell'Oceano Atlantico. Biostimolanti di questo tipo sono già stati utilizzati per molte colture, anche per la tolleranza alla siccità, ma non sono ancora stati ben testati sui cereali. Il secondo, invece, si basa sul microbioma presente nelle radici, nella rizosfera e nell'endosfera; questi microrganismi vanno in simbiosi con la pianta, ne ricevono dei vantaggi e, in cambio, la rafforzano dandole una maggiore tolleranza a una serie di stress. Vogliamo prendere dei campioni di terreno attaccato alle radici delle piante in terreni coltivati ma anche non coltivati, soprattutto nelle zone dove cresce la Eragrostis nindensis, e studiarli, perché queste piante potrebbero avere un microbioma che gioca un ruolo importante nel favorire la tolleranza alla siccità. In poche parole, l’idea è produrre un mix di alghe marine, questo seaweed extract, e un mix di microrganismi, che possano essere spalmati sul seme prima della semina o spruzzati sulle foglie poco prima che possa avvenire lo stress.  

Molto interessante.  

Ma non è tutto. Vede, ancora oggi i meccanismi di funzionamento dei biostimolanti non sono del tutto chiari. Quindi uno degli obiettivi più innovativi di questo progetto è studiare il cosiddetto mode of action, di questi biostimolanti. Una volta che il mode of action è chiaro si può fare qualcosa un po’ più tailor made. Accade lo stesso per i farmaci: se non sai bene come funziona un farmaco è difficile prescriverlo nei casi in cui può avere un’utilità specifica.  

In un contesto di cambiamento climatico e di sfide crescenti questo è un percorso per cercare nuovi strumenti, giusto?

Esatto. D’altra parte, il progetto comprende uno studio di Life-Cycle Assesment per valutare l’impatto di questi nuovi biostimolanti perché non è detto che una cosa, solo perché sia naturale, non possa causare anche dei danni.  

Quindi si tratta di studiare gli effetti di questi nuovi biostimolanti?  

Esatto, oggigiorno i progetti europei richiedono di misurare anche la TRL, cioè la Technology Readiness Level. L’idea è di arrivare alla fine del progetto, cioè in aprile 2027, con dei prodotti già testati in ambiente.  

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